Un nuovo appuntamento col “museo diffuso“ a caccia di capolavori meno noti ma di facile accesso sparsi per Milano. Questa volta vi portiamo al Verziere, dove si trova la maestosa chiesa di Santo Stefano Maggiore nell’omonima piazza.
All’interno della chiesa di Santo Stefano Maggiore, tra le varie opere presenti e bisognose di un grande restauro, così come tutta la chiesa, si trova nella cappella dell’abside minore di destra, un’importante tela di Camillo Procaccini (Parma, 3 marzo 1561 – Milano, 21 agosto 1629), il San Teodosio.
Il Procaccini nacque a Parma il 3 marzo 1561 da Ercole e dalla sua seconda moglie, Nera Sibilla. Formatosi nella bottega paterna, già nel 1571, a soli dieci anni, Camillo risulta iscritto all’Arte dei bombasari e dei pittori di Bologna (dove la famiglia era tornata dopo il lungo soggiorno parmense), grazie al prestigio goduto da Ercole all’interno dell’istituzione. La prima opera dell’artista è il S. Giovanni Battista alla fonte (1577), ora alla Galleria Estense di Modena, che rivela una riflessione sui modelli offerti da Raffaello, Michelangelo e Pellegrino Tibaldi.
La cappella Trivulzio, che si trova a destra dell’altare maggiore, venne progettata da Giuseppe Meda, la cui costruzione è ben documentata. Nel 1531 il cardinale Teodoro Trivulzio disponeva nel suo testamento che fosse edificata una cappella, dedicata a San Teodoro, ove si trovava la cappella di San Vincenzo giuspatronato della famiglia Besozzi e per tale opera lasciava 10.000 ducati. Probabili contrasti con la famiglia Besozzi e l’indecisione degli eredi fecero sì che i lavori alla cappella iniziassero soltanto nel 1594.
Risarciti in parte i Besozzi e acquistate alcune porzioni di terreno vicino, veniva incaricato del lavoro Giuseppe Meda, che a sua volta stipulava un contratto per l’esecuzione con Giovanni Piantanida il 18 aprile 1595. Il progetto subì alcune modifiche nella fase esecutiva; il vestibolo ellissoidale fu sostituito con un vano rettangolare, l’altare fu direttamente appoggiato alla parete terminale e sulla destra lo spazio che doveva costituire una sorta di sacrestia fu collegato alla zona da tre arcate poggianti su un muretto anziché con una sola porta. La struttura centrale era costituita da un ambiente quadrato coperto da volte e sostenuta da archi e rosoni in rilievo su quattro colonne corinzie in marmo poste agli angoli. Due corti bracci laterali avvicinavano alla pianta della cappella a una croce greca allungata. Il motivo ornamentale a rosoni ritornava nella volta sopra l’altare creando con le decorazioni in stucco un effetto di leggera ariosità.
Sull’altare fu collocata una pala di Camillo Procaccini raffigurante San Teodoro. Nel 1702 di fianco la cappella veniva costruita, su disegno dell’Ingegner Francesco Bianchi, la nuova sacrestia.
La tela rappresenta il Santo mentre contempla spiritualmente il Signore e mentre viene condotto al rogo. Uno dei “carnefici” tiene in mano uno dei ganci utilizzati per scorticare vivo San Teodoro. Ai piedi del Santo si vede una figura di bambino che attizza un focolare soffiando. La composizione è molto dinamica con le figure che circondano il santo quasi tutte in penombra. Sempre nella parte oscura, si scorge la figura del giudice che condanna Teodoro al supplizio. Purtroppo la tela è quasi sempre avvolta nell’oscurità e poco illuminata, come si meriterebbe.
Originario dell’Oriente, arruolato nell’esercito romano, era stato trasferito con la sua legione nei quartieri invernali di Amasea (Anatolia) al tempo dell’imperatore Galerio Massimiano. Era allora in atto la persecuzione contro i cristiani già avviata da Diocleziano (284-305) e reiterata da Galerio, imperatore dal 305, con una serie di editti che prescrivevano a tutti di fare sacrifici e libagioni agli dei.
Teodoro rifiutò di sacrificare agli dei, nonostante le sollecitazioni dei compagni. Venne accusato di essere cristiano e deferito al giudizio del tribuno. Durante l’interrogatorio, nonostante l’alternanza di minacce e promesse, rifiutò nuovamente di sacrificare agli dei. È nota la riluttanza dei governatori a mandare a morte gli accusati, ancor di più in questo caso trattandosi di un legionario: essi preferivano ricorrere alla tortura per piegarne la resistenza e far loro salva la vita. Il prefetto Brinca, comandante della Legione Marmarica, vista anche la giovane età e l’intelligenza di Teodoro, si limitò a minacciarlo e gli concesse una breve dilazione temporale per permettergli di riflettere, ma egli ne approfittò per incendiare il tempio di Cibele (Madre degli dèi) che sorgeva al centro di Amasea presso il fiume Iris.
Venne così nuovamente arrestato e il giudice del luogo, tale Publio, ordinò che venisse flagellato, rinchiuso in carcere e lasciato morire di fame. Ma questa punizione sembrava non avere nessun effetto su Teodoro, che anzi rifiutò persino il bicchiere d’acqua e l’oncia di pane al giorno, che i suoi carcerieri gli porgevano. Scampato miracolosamente alla morte per fame, Teodoro venne infine tolto dal carcere e ricondotto in giudizio. I magistrati gli fecero grandi promesse, lo sollecitarono vivamente di accondiscendere alla volontà degli imperatori anche solo in apparenza, promettendo che lo avrebbero lasciato libero.
Gli offrirono perfino la carica di pontefice. Teodoro rifiutò sdegnosamente e tenne testa al tribunale, non riconoscendo i loro dei, beffandosi delle proposte che gli venivano fatte e testimoniando che non gli avrebbero strappato una sola parola né un solo gesto contro la fedeltà che doveva al Signore. Il giudice, vedendo l’ostinazione di Teodoro, ordinò allora che venisse torturato con uncini di ferro (ben visibili nel dipinto), fino a mettere a nudo le costole, e lo condannò ad essere bruciato vivo. Subì il martirio il 17 febbraio del 306 (oppure tra il 306 e il 311).
I carnefici lo condussero nel luogo stabilito e presero la legna da mercanti addetti ai bagni. Teodoro depose i suoi vestiti e i numerosi fedeli accorsi si agitavano per poterlo toccare, respinti dai carnefici. A costoro il martire disse: «Lasciatemi così (vivo n.d.r.) perché chi mi diede sopportazione nei supplizi mi aiuterà affinché sostenga illeso l’impeto del fuoco». I carnefici lo legarono, accesero il rogo e si allontanarono. La leggenda racconta che Teodoro non subì l’offesa delle fiamme, morì senza dolore e rese l’anima glorificando Dio. Una donna di nome Eusebia chiese il corpo di Teodoro, lo cosparse di vino e altri unguenti, lo avvolse in un sudario ponendolo poi in una cassa e lo portò, da Amasea, in un suo possedimento ad Euchaita, l’attuale Aukhat, distante un giorno di cammino, dove venne sepolto.
Bellissimo, a volte abbiamo dei gioielli sotto il naso e non lo sappiamo. Grazie