di Sara Manazza
Portiamo alla luce l’esperienza reale di disintermediazione che sta vivendo sulla propria pelle una nuova cittadinanza attiva, ossia di come il cittadino si trovi nella situazione di relazionarsi direttamente con la real estate che investe sul territorio, bypassando le stesse Istituzioni. E poi proviamo a collegare questo concetto di disintermediazione al modello del platform thinking* come possibile escamotage per provare a rendere collettiva questa proattività e a creare un placemaking autenticamente bottom up, andando a strutturare un processo nuovo, una rigenerazione “molti a molti” delle nostre città, che possa misurare il ritorno di investimento qualitativo sul territorio, in un nuovo patto sociale, un nuovo fare collettivo, dove tutti vincono.
Proviamo a mettere in luce un’evidenza, concreta, di come si stia consolidando una nuova figura di cittadino periferico, privato e pensante che dialoga direttamente con il real estate che investe e atterra con splendide astronavi in quartieri depressi, senza aspettare o pretendere l’intermediazione delle Istituzioni Pubbliche.
Questa proattività diretta deve essere vista come una chance in più che i cittadini hanno per presidiare e garantire una sorte placemaking inclusivo, che prova a prevenire fenomeni di gentrificazione, l’esclusione dei residenti originari di cui sentiamo tanto parlare e che vediamo già in molte parti di Milano, dovuta al riposizionamento “premium” post riqualificazione di quartieri periferici che, dopo il make up speculativo, finiscono per diventare inaccessibili alla comunità nativa stessa.
È proprio questa disintermediazione sociale, già osservata in molti altri settori come il turismo a rappresentare una delle trasformazioni più interessanti per la partecipazione civica e urbana.
Ma come rendere questa disintermediazione plurale e non singolare, collettiva e non cosa privata? E a garantire soprattutto la socialità e il progresso culturale della rigenerazione del territorio?
Una possibile risposta potrebbe arrivare da un cortocircuito tra i modelli di open innovation tipici del settore tecnologico e i modelli associativi tradizionali, per andare a superare questi ultimi, ponendo il vissuto e i bisogni quotidiani delle persone come bussola per guidare gli interventi di rigenerazione e trovarne risposte ai bisogni in tempo reale.
E qui che varrebbe la pena innestare e sperimentare il platform thinking, come quello studiato e promosso dall’Osservatorio Platform Thinking HUB del Politecnico di Milano: un paradigma scalabile che assorbe senza scopi di business ma solo di sviluppo diciamo “democratico”, la partecipazione attiva e di placemaking inclusivo.
Il platform thinking può essere pensato come strategia applicabile a qualsiasi contesto, non solo come boost delle start up tecnologiche ma come mentalità potenzialmente estendibile a iniziative di sviluppo territoriale. L’idea di creare piattaforme, spesso ma non necessariamente digitali, come mezzo per generare valore attraverso la connessione e l’interazione di più gruppi di utenti o soggetti coinvolti (stakeholder), ci pare molto attuale e innovativa. In questo contesto, la piattaforma non è solo un prodotto o un servizio, ma un ecosistema dinamico che facilita lo scambio di valore tra le parti coinvolte, un modello organizzativo “molti a molti” che mette in relazione più gruppi di cittadini, domanda e offerta, e che per funzionare sottintende una massa critica non indifferente di interesse reciproco (effetti di rete): più utenti partecipano, più la piattaforma, la piazza digitale, diventa utile per ciascun gruppo.
Un esempio classico è Airbnb: connettere chi ha spazi da affittare con chi cerca un alloggio. La piattaforma non possiede gli immobili ma facilita lo scambio tra le due parti.
Potrebbe essere un modello alternativo al classico associazionismo, al di sopra delle ideologie politiche, che funzioni come garante e abilitatore della dimensione collettiva e di comunità. La comunità, abilitata dalla piattaforma, diventa generatrice di valore nella misura in cui incide sulla realtà.
L’associazione diventa la piattaforma digitale, ma non solo, che mette in connessione domanda e offerta, direttamente, senza intermediari: stiamo parlando di sistemi che devono rimanere no profit, di volontariato, incorniciati in una visione condivisa, pubblica, a cui tutti possono prendere parte per prendersi cura dei beni comuni, partendo da un “proposito” condiviso. Facciamo un esempio concreto: l’associazione che gestisce uno spazio verde, se diventa una piattaforma di quartiere riuscirebbe a costruire e mantenere un palinsesto semplicemente offrendo slot di calendario da riempire, mettendo in contatto domanda e offerta dei cittadini del quartiere legati al tempo libero.
Questo approccio richiede anche nuovi strumenti di valutazione, che vadano oltre le metriche finanziarie tradizionali e misurino l’impatto sociale e ambientale degli interventi sul territorio. Un esempio di questa convergenza potrebbe essere la creazione di piattaforme digitali per raccogliere feedback dai cittadini in tempo reale, integrando queste informazioni nei processi decisionali. Oppure, sviluppare mappature che combinino dati qualitativi, come le esperienze raccolte attraverso delle “camminate” dei percorsi quotidiani che le persone agiscono per muoversi nel quartiere, con indicatori quantitativi, per identificare le priorità di intervento.
La rigenerazione non deve essere solo una questione di estetica o profitto: deve essere un processo di co-creazione che riconosca la dignità del luogo e delle persone che lo vivono. Come ci ha insegnato Jane Jacobs, “camminare e osservare la città” è il primo passo per progettare città che funzionino davvero.
Con questo spirito, possiamo guardare al futuro delle periferie, con una nuova consapevolezza: la rigenerazione urbana è possibile solo se diventa un patto sociale tra tutti gli attori coinvolti, dove il territorio non è uno sfondo neutro, ma un protagonista attivo di una possibile identità collettiva, di mutuo appoggio che evidenzia come la cooperazione volontaria tra individui sia un motore essenziale per costruire comunità e sistemi capaci di generare valore condiviso.
Questo ovviamente preservando nel cuore e nell’azione il valore delle relazioni umane, non per cancellarle ma per esaltare solo la parte positiva, ottimistica e non polemica, insita nel fare cittadinanza attiva. La collaborazione permette di mantenere umana la commodity tecnologica: perché il ritorno di investimento è un plus territoriale concreto di miglioramento della comunità locale.
L’integrazione tra placemaking e platform thinking è un campo emergente nella letteratura accademica e nelle pratiche urbane: ma è chiaro che sia necessario ripensare il placemaking nell’era digitale, social oriented e content creator centric in cui siamo immersi nativamente e quotidianamente, dove le tecnologie digitali e le piattaforme online possono trasformare le pratiche tradizionali di progettazione e di urbanistica, suggerendo un approccio integrato che combina elementi digitali e fisici per creare spazi pubblici più interattivi e coinvolgenti.
Quindi per concludere vogliamo provare a suggerire l’importanza di combinare il placemaking con il platform thinking per affrontare le sfide contemporanee nella progettazione e gestione degli spazi urbani. Noi siamo pronti a sperimentare!
*L’approccio del Platform Thinking si basa sull’idea che comprendendo e adottando i meccanismi delle piattaforme digitali quotidiane, le aziende possono scoprire opportunità di innovazione e trasformazione digitale inaspettate.
- Referenze immagini: varie internet
- Urbanistica, Urbanistica tattica, Platform Thinking, gentrificazione, placemaking
In che senso si tratterebbe di attività “senza scopi di business” se poi si cita Airbnb, che il business lo fa eccome? Mi sembra un po’ un wishful thinking (tanto per restare all’ inglese che sembra tanto piacere all’ autrice). Ma poi c’è quella “disintermediazione” che sottintende il superamento del ruolo delle istituzioni pubbliche, che fa tanto ma tanto altright. No, thanks!
A parte che sembra un estratto dal comizio del nuovo partito unico globalista-PCUS 2.0, è’ stata proprio la “piattaforma” a trasformare normali appartamenti in alberghetti vari e che sta distruggendo la vita nelle città, ad esempio in Spagna dove già ci sono cittadini nati e cresciuti spagnoli da genitori spagnoli che ora vivono in camper, perchè non possono permettersi un appartamento, neanche in affitto. La cosiddetta gentrificazione spaventa i global, ma non abbiano da temere, perchè gli immigrati continueranno ad avere la casa popolare, oppure subaffitteranno vivendo nello stesso appartamento in più del consentito, come già accade a Milano; gli unici a perderci saranno i nativi…va bene chiamarli così? Fa tanto sinistra…
“proviamo a collegare questo concetto di disintermediazione al modello del platform thinking* come possibile escamotage per provare a rendere collettiva questa proattività e a creare un placemaking autenticamente bottom up, andando a strutturare un processo nuovo, una rigenerazione “molti a molti” ”
Con tutto l’affetto, un cabarettista con frasi del genere ci campa di rendita in eterno: possibile che non si possano esprimere gli stessi concetti senza ricorrere al latinorum 4.0?