Milano | Porta Garibaldi – La città incompiuta

Ne avevamo parlato qualche tempo fa in un articolo che trattava delle vie incompiute realizzate a Milano sopratutto nel dopoguerra.

Uno di questi sventramenti con l’intento di creare una nuova via fu quella iniziata e mai conclusa di una parallela di Corso Garibaldi. La nuova via doveva partire dalla piazzale Marengo e probabilmente terminare in Via Tommaso da Cazzaniga. I bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale favorirono gli sventramenti e con la ricostruzione, non più filologica, ma completamente contemporanea e moderna stravolsero l’antico tessuto e borgo fatto di antiche case popolari.

Oggi c’è un accenno della “non via” proprio su piazzale Marengo e l’altro pezzetto, che oggi sembra più un cortile, è stato nominato via Luigi Albertini. Probabilmente, secondo il piano regolatore, l’antica via Anfiteatro, che ricalca un’antica strada che proseguiva nell’odierne vie Canonica e Piero della Francesca, doveva sparire per buona parte e diventare moderna.

Iniziamo da piazzale Marengo e largo Paolo Grassi, troviamo uno dei pochi esempi di bell’edificio di epoca Post-Moderna. Si tratta del palazzo di piazzale Marengo 6, progettato da  Maurizio Calzavara e Silvano Tintori nel  1985-88, caratterizzato da una facciata color rosa-bruno e modulata da fasce verticali tutte terminanti con un arco ma non allineate,  dove in alcune parti terminanti sono state aperte delle finestre rotonde. La base, invece, è formata da uno zoccolo in pietra scura con aperture delle vetrine e sormontato, in corrispondenza di ogni porzione delle fasce di facciata, da una bow-window con griglia.

Il palazzo è stato realizzato con un ponte che permette di accedere al “pezzetto” di strada mai completata che oggi è stato trasformato dai condomini in un bel giardinetto. Sullo sfondo troneggia come una quinta scenografica la parete cieca di uno dei vecchi palazzi che hanno resistito allo sventramento. sulla destra troviamo uno spazio incolto che ritroveremo a breve nel nostro racconto.

Lasciamo largo Marengo e imboccando via Luchino Visconti, ci portiamo sul Corso Garibaldi. Svoltando a sinistra, ci troviamo dove c’è la biforcazione creata da via Anfiteatro, quest’antica strada che portava verso il Borgo degli Ortolani, la Bullona, la Cagnola, Musocco e poi ancora Saronno e quindi Varese. Strada oggi spezzata dalla presenza del Parco Sempione e dall’Arena Civica.

Pochi metri e notiamo subito l’edificio moderno di corso Garibaldi 49, palazzo dignitoso, ma che andrebbe bene in tutt’altra zona, segno di come nel dopoguerra non ci si preoccupò del rispetto del contesto, ma anzi, l’intento era quello di sventrare e trasformare. Così il palazzo ha anche un affaccio sul terreno abbandonato che menzionavamo prima, con di fronte la parete cieca della vecchia casa. Chissà chi è il proprietario di questo terreno, oramai inutilizzabile se non come giardino anche se giardino non è. Non sarebbe bello unire i due spazi e trasformare il tutto in un unico giardino, dove magari, la parete cieca venisse colorata con un bel murale?

Il tratto mediano della via Anfiteatro (il nome deriva dalla presenza non lontana dell’Arena Civica) è rimasto, per fortuna, con ancora un discreto gruppo di case d’epoca, oggi tutte restaurate e molto belle.

Giungiamo alla fine del nostro percorso per osservare da via Giulianova, voltandoci, il guazzabuglio di palazzi costruiti in tempi differenti e che oggi formano un insieme abbastanza eterogeneo. Qualche palazzo ha cercato di farsi spazio tra i ruderi e i lotti contorti e frammentati. Qualche palazzo si affaccia sulle pareti cieche delle vecchie case.

Da via Giulianova si accede a via Luigi Albertini, una “via” mozzata e che oggi, come già avevamo detto, rimanendo incompiuta è a fondo cieco e pare più un cortile che una strada pubblica. Purtroppo questo insieme senza senso di vie e palazzi mal posti è la conseguenza di cattive gestioni e visioni speculative senza senso avvenute a partire dal dopoguerra in poi. Forse qualcosa per renderle più vivibili e belle si potrebbe fare, ma la vediamo difficile. Unica cosa fattibile è poter sistemare quello spazio inutilizzato che menzionavamo poco fa.

Avevamo già parlato di un caso simile ma al Ticinese, quello di Via Ettore Troilo.

Per l'utilizzo delle immagini scrivere a info@dodecaedrourbano.com

13 commenti su “Milano | Porta Garibaldi – La città incompiuta”

  1. Eh si dice bene l’articolo. Speculatori del dopoguerra all’opera.
    I fascisti hanno distrutto la Milano popolare perché doveva essere imperiale. Gli alleati l”hanno bombardata e Gli urbanisti del dopoguerra hanno finito l’opera perché si sono votati al modernismo. Milano come New York.
    Ora come dice l’articolo si può solo far diventare giardinetti gli scampoli di terreno sopravvissuti. Almeno quello!
    Nelle piazze create dagli sventramenti si potrebbero fare dei parcheggi sotterranei. Avrebbero senso e non darebbero fastidio al traffico. Visto che già sono usate come parcheggio e non sono strade di scorrimento.

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    • “I fascisti hanno distrutto la Milano popolare perché doveva essere imperiale.”

      Gli sventramenti dei quartieri popolari (vetusti e congestionati) sono una costante in tutta Europa dal tardo XIX secolo in poi. Erano presenti pure nel piano Beruto, ad esempio. O vogliam parlare di cosa si è distrutto per far posto a Piazza del Duomo?

      Negli anni 20 e 30 si son fatte innumerevoli boiate urbanistiche, ma un minimo di prospettiva storica talvolta non farebbe male.

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      • Verissimo, basti pensare al piano Haussmann a Parigi o al Barri Gótic di Barcellona che è (quasi) tutto una ricostruzione finta 800esca.

        Sono appena tornato da Edimburgo e anche lì l’atmosfera così “Harry Potter” della città è data al 90% da roba neogotica finta dell’800, di medievale vero c’è ben poco 8c’è di più a Milano!).

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    • “I fascisti hanno distrutto la Milano popolare perché doveva essere imperiale.”
      Ai fascisti va però riconosciuto il merito di aver realizzato un capolavoro dell’architettura moderna, ossia la stazione Centrale, grandiosa, maestosa, imperiale, ardita, littoria, insomma come avrebbe detto “Lui”: “fascistissima”! Una stazione che fa rosicare tutti (meno i milanesi naturalmente):
      – gli stranieri, in particolare gli europei, che la prima volta che si trovano di fronte a cotanta maestosità e imperialità glielo leggi in faccia: “ma tu guarda questi subumani italiani di cosa sono capaci! E dire che pensavo che fossero solo mafia, pizza e mandolino”. E rosicano…
      – i romani arrivando da quella bruttura che è la stazione termini che pensano, ma non troppo convinti: “E’ più maestoso e imperiale er colosseo”. E rosicano…
      Diciamo che “Lui” stava facendo molto bene, e la stazione Centrale ne è un esempio lampante, purtroppo per “Lui”, l’inizio della sua fine è stato quando si è trasferito da Milano a roma dove ha iniziato a sbracare completamente.

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      • Intendi la stazione termini, questa qui citata sotto?…


        scritti_broccoliStazione Termini

        Per una rilettura critica del progetto

        Luca Montuori

        20_vista aerea 1950La Stazione Termini è nota a molti, evoca quelle immagini dell’Italia del dopoguerra e del boom economico, con le Fiat 1400 e 1100 parcheggiate sotto la pensilina con Jennifer Jones e Montgomery Clift che si baciano sulle banchine con De Sica dietro la telecamera. Quelle stesse immagini si sovrappongono alla Termini di oggi, con le oltre 500.000 persone che la attraversano ogni giorno, con la sua galleria di testa divenuta vero e proprio luogo pubblico in cui viaggiatori e passanti si mescolano come in una grande piazza del centro di Roma.

        Fin dallo sviluppo dei trasporti ferroviari la stazione ha avuto un suo fascino inarrivabile, quello di un edificio che mette in comunicazione due mondi diversi, così eterogenei da sembrare inconciliabili. La stazione è per metà fabbrica e per metà palazzo e fin dalle sue origini rispecchia nella sua architettura questa duplicità insanabile. L’avvicinamento di questi due mondi segue un percorso da cui derivano innovazioni tipologiche e trasformazioni funzionali, man mano che il viaggio in ferrovia diviene un normale modo di spostarsi la distinzione tra le parti si assottiglia, i traffici e i flussi di pedoni e visitatori divengono fluidi e la stazione non separa più due mondi sempre meno diversi bensì li unisce.
        La Stazione Termini, a differenza di molte stazioni storiche in Europa, non è semplicemente un edificio attraverso cui i viaggiatori entrano in città, non è solo una stazione. É un pezzo di città, è fatta di strade, percorsi, collegamenti, luoghi, piccoli monumenti, fontane, parti da visitare, parti da attraversare distrattamente; è fortemente inserita nella vita e nella struttura dei tessuti urbani circostanti. E come una parte di città si è sviluppata, con progetti diversi, contrasti, accelerazioni, sovrapposizioni. Sempre con uno sguardo al futuro, all’evoluzione delle tecnologie, al significato stesso che la ferrovia assume rispetto alla città nelle diverse epoche, e uno sguardo alla storia del luogo in cui si colloca.

        Progetti grandiosi non realizzati, itinerari ferroviari alternativi e decisioni contrastate che addirittura avrebbero potuto portare viaggiatori e turisti a uscire dalla stazione di fronte al Colosseo ai piedi del Colle Oppio, o accanto alla Mole Adrianea ai Prati di Castello, o ancora nel bel mezzo del parco di Villa Borghese, solo per citare alcune delle diverse alternative che sembrarono possibili a tecnici, esperti e opinionisti vari.
        L’attuale assetto della stazione è il frutto di pensieri e ripensamenti, realizzazioni e demolizioni, che, dalla fine dell’Ottocento, hanno riguardato non solo il fabbricato in sé ma l’assetto complessivo dell’area. Dal primo Fabbricato viaggiatori, ricavato nelle Botteghe di Farfa, piccoli edifici ad uso rurale che appartenevano alla tenuta della Villa Massimo, distrutta come vedremo per lasciar posto all’arrivo della ferrovia, ai giorni nostri diversi sono stati i protagonisti, molti i progetti che hanno visto alcuni tra le maggiori personalità della storia dell’architettura moderna confrontarsi, e scontrarsi.
        Nell’insieme l’ingresso alla città eterna dalla ferrovia, così come oggi i passeggeri possono ammirarlo, rimane uno dei luoghi suggestivi e vitali della città.
        La forza degli spazi rimane al di là delle apparentemente irrinunciabili necessità commerciali che hanno ultimamente trasformato l’atrio della stazione in uno spazio frammentato, in uno spot pubblicitario, una sorta di moderno ipermercato che ha cancellato la trasparenza delle vetrate, ha tradito il rapporto tra interno ed esterno accentuato dalla compressione spaziale della pensilina, il Dinosauro, che dai binari portava lo sguardo dei visitatori fino alle Terme di Diocleziano.

        See, from the travertine / Face of the office block, the roof of the booking-hall
        Sails out into the air beside the ruined / Servian Wall,
        Echoing in its light / And cantilevered swoop of reinforced concrete
        The broken profile of these stones, defeating / That defeat

        For the New Railway Station in Rome è una poesia di Richard Wilbur, scrittore e poeta americano nato nel 1921, che all’epoca dell’inaugurazione era borsista Fulbright ospite dell’Accademia Americana a Roma. Fu scritta in un periodo in cui il viaggio in Europa, con diverse tappe nelle migliori località in cui avevano sede illustri fondazioni, era divenuto per gli scrittori e i poeti americani una rinnovata moda. Tuttavia, è facile immaginare come tra le descrizioni del Bel Paese primeggiassero odi alle bellezze classiche, rovine, segni della storia, o anche segni delle distruzioni belliche.
        Ciò che di questi versi colpì maggiormente i critici del tempo, al di là della brillante capacità e tecnica poetica dell’autore (la raccolta Things of This World in cui era inserita valse a Wilbur il Pulitzer Prize, il National Book Award, e diversi altri premi), fu proprio la scelta della Stazione Termini quale oggetto di ispirazione e l’idea del contrasto tra la modernità rappresentata dall’idea stessa della stazione e dalla sua interpretazione architettonica, e la presenza delle Mura Serviane, al di sopra delle quali si libera lo “sbalzo in picchiata” del nuovo atrio biglietterie.

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        Sempre in quegli anni (1955), il critico americano G. E. Kidder Smith sottolineava nel suo libro Italy Builds come nella stazione di Roma il contrasto tra la modernità sorprendente e la presenza delle Mura Serviane riuscisse a ricordare al viaggiatore il ruolo culturale della città più affascinante del mondo. Alcuni anni più tardi nel suo The new architecture of Europe (1961) non esiterà a definirla “La più bella stazione d’Europa”.
        E ancora C. L. V. Meeks, autore di The Railroad Station. An Architectural History (1956) non esita a definire la Stazione di Roma non solo la più bella stazione moderna ma più in generale uno dei più interessanti edifici moderni.
        Non bisogna rimanere certo stupiti del successo di critica ottenuto dal progetto della Stazione Termini all’estero, in un momento in cui l’Italia era al centro del dibattito architettonico internazionale e la ricostruzione procedeva ricca di fermento culturale e di confronto tra i diversi protagonisti.

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        • Sarà… una cosa è certa, agli stranieri la stazione termini di roma non li fa certo rosicare come la stazione Centrale di Milano. Se c’è qualcuno appassionato di fotografia gli consiglio di andare alla stazione Centrale e fotografare il volto degli stranieri e il loro stupore (che poi si trasforma in rosicamento) quando scendono dal treno e si guardano in giro, persi nella maestosità della stazione.

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  2. La stazione Centrale è un misto tra stile Art Déco, Liberty e razionalismo fascista. La sua fortuna è che i lavori partirono ben prima del fascismo (1911) ma si protrassero a lungo a causa della I Guerra Mondiale.
    Con il fascismo il progetto fu terminato e chiaramente influenzato, ma non abbastanza, fortunatamente.

    Per ammirare il vero e puro stile fascista, abbiamo le stazioni di Firenze e Venezia, che sono ben distanti dalla bellezza della Centrale.
    Piatte, squadrate e noiose, rappresentano in pieno la mentalità dei regimi, che non amavano fantasia e libertà di pensiero.

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  3. Rispondo all’anonimo che scrive sugli sventramenti fatti anche in altre città d’Europa. Vero.
    Ma se ne sono sempre pentiti.
    Poi un conto è distruggere alcune vie di Parigi, città immensa con una storia e uno sviluppo non paragonabile alla nostra città, e un conto è sventrare il centro storico di Milano che è poca cosa e corrisponde ad un piccolo quartiere della città Francese.
    E noi quel poco che avevamo siamo riusciti a distruggerlo.
    Ho visto un documentario su Le Corbusier. Voleva veramente distruggere Parigi per ricostruirla con criteri moderni. Strade a lungo scorrimento e grattacieli ai lati.
    Bel progetto, anche ben disegnato, ma per fortuna non messo in pratica. Detto dai Parigini stessi.
    I turisti poi oggi cosa credi che vadano a vedere, la vecchia Parigi o i grattacieli de la defense? Per quelli c’è NY e anche più belli.
    Dietro poi alle distruzioni Milanesi non c’era un intento positivo urbanistico o architettonico.. ma mera speculazione. I vecchi Palazzi sono stati sostituiti nella maggior parte dei casi da condomini dozzinali alti il doppio che hanno solo sovrappopolato, congestionando, strade rimaste nella dimensione ottocentesca e inadeguate e reggere il traffico.
    ( Parlo del dopoguerra)
    Possiamo dire che alla città ha fatto più danno la ricostruzione che le bombe degli Alleati.
    Questo lo si può vedere in ogni angolo della città. Purtroppo. L’esempio lo illustra l’articolo di UF.
    Stiamo commentando quegli obbrobri che hanno dei responsabili. Su Beruto vi rimando, a chi è interessato, a WIkipedia. Molto interessante la parte sulla speculazione del lazzaretto..da parte della banca di credito Italiano. Cosa scritta anche da UF.

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    • Antonio, Hausmann non ha “distrutto alcune vie di Parigi” come scrivi, ma ha completamente raso al suolo tutta la città medioevale seicentesca sostituendola con i larghi boulevard che conosciamo oggi.
      Eravamo tra il 1850 ed il 1870. La speculazione del lazzaretto a Milano che tu citi è del 1880, il piano Beruto del 1885. Idem l’abbattimento dei Bastioni, e l’inizio degli sventramenti del centro di Milano (fino ad allora intatto) per galleria e Piazza Duomo: quello era il periodo e quelle le idee.

      Noi Italiani arriviamo sempre con l’ultimo treno e tanta parte degli sventramenti seguenti fino agli anni 30 (o periodo fascista che dir si voglia) non son molto altro che il proseguimento di idee urbanistiche di 50 anni prima.

      Questo solo come contributo alla prospettiva storica, come da post iniziale. Poi che molti palazzi del dopoguerra facciano rimpiangere le bombe alleate siam tutti d’accordo…

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  4. Da quello che so io le prime distruzioni di Milano risalgono al periodo seguente all’Unità D’Italia. Correggimi se sbaglio. Milano doveva diventare la capitale finanziaria e il centro fu destinato a questo scopo..
    Quello che volevo dire su Parigi e che una città come quella ha potuto sopportare i suoi sventramenti senza cambiare identità. Rimane una città storica.
    Milano non ha avuto questa sorte. E’ una città più delicata e non meritava il trattamento del dopoguerra. L’esempio del lazzaretto voleva dire proprio questo. Che gli speculatori ci sono in ogni epoca.

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