Milano | Porta Romana – Cantiere Villaggio Olimpico: febbraio 2024

Aggiornamento di inizio febbraio 2024 dal cantiere presente allo Scalo di Porta Romana, dove sarà realizzato il Villaggio Olimpico. Il cantiere è in grande fermento, come immaginabile. Qui saranno eretti gli edifici che ospiteranno gli atleti per poi essere convertiti a evento olimpico concluso, in residenza universitaria. Saranno successivamente costruiti altri edifici e la famosa passerella-passeggiata (che pare abbastanza costosa), oltre alla riqualificazione della stazione FS di Porta Romana. 

Il Progetto di Parco Romana presentato dal team OUTCOMIST, Diller Scofidio + Renfro, PLP Architecture, Carlo Ratti Associati, con Gross. Max., Nigel Dunnett Studio, Arup, Portland Design, Systematica, Studio Zoppini, Aecom, Land, Artelia. Mentre il Progetto Villaggio Olimpico è del gruppo SOM – Skidmore, Owings & Merrill.

Cantiere che prosegue a gran ritmo (almeno questo non sarà in ritardo).

Le palazzine delle ex vecchie officine, quelle di inizio Novecento iniziano a riprendere forma con le coperture e le nuove pareti in legno. In mattoni rimarranno solo le vecchie pareti delle facciate principali, quelle coi caratteristici oblò.

Sull’altro versante, verso il blocco dello studentato aparto di via Ripamonti angolo viale Isonzo, stanno scavando un non ben definito lotto, il cui scopo ci è ancora oscuro (ultime foto), mentre osservando il resto dello scalo, ben poco è avvenuto in questi ultimi mesi.

Referenze immagini: Roberto Arsuffi; Valter Repossi

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3 commenti su “Milano | Porta Romana – Cantiere Villaggio Olimpico: febbraio 2024”

  1. Il piano Mattei e la disfatta delle privatizzazioni in Italia

    http://www.affaritaliani.it

    Enrico Mattei (1906-1962) fu un industriale e un politico italiano, eletto alla Camera dei Deputati dal 1948 al 1953 nelle fila della Democrazia Cristiana, corrente di Giorgio La Pira e Giovanni Gronchi.  Nel 1945 fu nominato commissario liquidatore dell’Agip, creata nel 1926 dal regime fascista. Invece di seguire le istruzioni del Governo, riorganizzò l’azienda, fondando nel 1953 l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), di cui l’Agip divenne la struttura portante. Sotto la sua guida, l’ENI diventò una multinazionale del petrolio, protagonista del miracolo economico italiano postbellico.

    Sotto la sua presidenza, l’ENI negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica. Queste iniziative contribuirono a rompere l’oligopolio delle “Sette Sorelle”, che, allora, dominavano l’industria petrolifera mondiale. Mattei introdusse, inoltre, il principio per il quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti. Per la sua attività, Mattei nel 1961 fu insignito della laurea in ingegneria ad honorem dalla Facoltà di Ingegneria (ora Politecnico) dell’Università degli Studi di Bari. Fu insignito, anche, di altre onorificenze come la croce di Cavaliere del Lavoro e la croce Bronze Star Medal dell’Esercito statunitense (5 maggio 1945), nonché della cittadinanza onoraria del comune di Cortemaggiore. Inoltre, post mortem, l’11 aprile 2013, ricevette la cittadinanza onoraria del comune di Ferrandina (MT), dove, nel 1958, l’Agip Mineraria effettuò prospezioni trovando il metano nella Valle del Basento. 

    L’idea di sviluppo di Enrico Mattei fu geniale, coraggiosa e, quindi, vincente. Negli anni ’50 e ’60 egli creò, in Italia un’economia mista, che metteva in concorrenza l’impresa pubblica con quella privata.  Si trattò di un sistema che riconobbe l’economia di mercato ma avvertendo la necessità della presenza dell’impresa pubblica con la funzione di regolazione dell’economia. Nasceva così, l’idea di “Stato imprenditore” che ebbe nell’ENI di Enrico Mattei l’espressione più significativa, di un’azienda pubblica operante con le regole del mercato e, nello stesso tempo, con la missione strategico-energetica di garantire energia a basso costo, e quindi un concreto sviluppo del Paese. Per Mattei, lo Stato doveva assumersi la responsabilità di curare la spesa pubblica e privata assieme, affinché fosse sufficiente a creare una domanda in grado di assorbire tutta la manodopera.

    Mattei portò l’ENI nel cuore della produzione del greggio, in Medio Oriente e in Nordafrica, controllata dalle “Sette sorelle” anglo-americane. Stabilì con i Paesi produttori (Egitto, Iran) formule contrattuali assolutamente rivoluzionarie, di pari dignità, al servizio di una politica priva di reminiscenze imperialistiche e coloniali.  Fra il 1958 e il 1962 Mattei costituì società in Marocco, Sudan, Libia, Tunisia, Nigeria e stabilì validi presupposti, in accordo con l’Algeria, per lo sfruttamento dei grandi giacimenti di gas del Sahara. L’azione internazionale di Mattei raggiunse anche la Cina. Nel 1958 incontrò il vice primo ministro Chen-Yi, perché la sua idea di sviluppo, aperta al dialogo e mai di stampo colonialista, doveva essere multipolare al punto da coinvolgere il mondo intero. 

    Anche a distanza di 60 anni possiamo vedere l’attualità stringente dell’intuizione di Mattei nella cooperazione internazionale, che mise in un angolo gli anglo-americani, in maniera così efficace da costringere Amintore Fanfani a un gran lavoro diplomatico con USA e Gran Bretagna, che culminò nell’utilizzo pubblico del termine “neoatlantismo”, per salvare le apparenze. Enrico Mattei morì nel 1962 in un incidente aereo nei pressi di Bascapé, alle porte di Milano. Le indagini sulla sua morte durarono anni e si scontrarono con gravi depistaggi. Oggi, si ritiene che uomini della Mafia sabotarono il suo aereo personale. 

    A trent’anni di distanza, il 2 giugno 1992, sul panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht  “Britannia”, fu deciso di avviare la privatizzazione dell’Italia, o, come direbbe qualcuno, la sua svendita, che tradì le idee di Mattei e umiliò l’Italia, resa, di fatto, la patria delle speculazioni, che fecero la fortuna finanziaria delle lobby. Bettino Craxi fu, di questa situazione, autentico profeta e fermo oppositore, finendo poi pagandola a caro prezzo per tutti, nell’esilio di Hammamet. Gli anfitrioni della Union Jack erano “invisibles”, cioè invisibili, non perché si trattasse di una losca setta occulta, ma perché così si chiamano nel Regno Unito quelli che si occupano di transizioni immateriali, dunque soprattutto di finanza: finanzieri e banchieri. 

    Gli ospiti erano l’alto comando dell’economia di Stato italiana: il presidente di Bankitalia  Carlo Azeglio Ciampi e l’onnipresente Beniamino Andreatta, i due artefici del “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro all’inizio degli anni ‘ 80, c’erano i vertici di Eni, Iri, Comit, Ina, le aziende di Stato e le partecipate al gran completo. C’era, a introdurre il consesso, il direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Fu lui a tenere la relazione introduttiva sui costi e i vantaggi delle privatizzazioni. Dicono che dalle sue parole trapelasse un certo scetticismo e forse è vero. Di certo, terminata la prolusione, sbarcò senza proseguire alla volta del Giglio.

    L’operazione avviata in quella mezza giornata sul mare era in realtà già stata decisa e non solo perché quella era allora, dopo la rivoluzione “thatcheriana-reaganiana”, il dogma economico dal quale si erano lasciati ipnotizzare tutti, la sinistra “di governo” non meno degli altri. Soprattutto perché quella gigantesca dismissione era condizione imprescindibile per entrare nella nascente moneta unica.

    Allora come oggi,  ce lo chiede l’Europa. Chiedeva parecchio: lo Stato controllava treni, aerei e autostrade per intero, idem per acqua, elettricità e gas, l’ 80% del sistema bancario, l’intera telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori di partecipazione erano praterie sconfinate: assicurazioni, meccanica ed elettromeccanica, settore alimentare, impiantistica, fibre, vetro, pubblicità, supermercati, alberghi, agenzie di viaggio. Impiegava il 16% della forza lavoro nel Paese. 

    Il breve governo Berlusconi, nel 1994, provocò una frenata, che si prolungò fino al 1996, anno della nascita della “Sinistra del grande Capitale”. Con i governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema, le dismissioni presero la rincorsa, facendo dei due politici gli autentici “curatori fallimentari” della sovranità economica italiana e dei suoi gioielli.  Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita: il ricavo immediato fu di 30 mld di vecchie lire, lievitati poi sino a oltre 56 mila. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom. Ciampi, allora ministro del Tesoro, spiegò che serviva a impedire che Fiat vendesse all’americana General Motors. D’Alema, arrivato al governo alla fine del 1998 patrocinò il cedimento di Autostrade a Benetton, introducendo una delle principali specificità delle privatizzazioni all’italiana: la vendita allo stesso soggetto sia del servizio che delle infrastrutture, le autostrade e i caselli, Telecom e i cavi sui quali viaggia il segnale.

    La dismissione è proseguita per una ventina d’anni, passando per le banche, quote di Enel ed Eni, il disastro di Alitalia. L’incasso è stato cospicuo: 127 mld di euro, una decina ricavata solo dalla vendita di immobili. Sarebbe un record, se non ci fosse l’inarrivabile Regno Unito thatcheriano e post- thatcheriano che è andato persino oltre. Il bilancio però è fallimentare, almeno se si tiene conto degli sbandierati obiettivi iniziali. Il debito pubblico non è stato risanato: si è triplicato. Il rilancio dell’occupazione ha proceduto all’indietro, con un milione di posti di lavoro circa persi. Il miraggio di creare “colossi italiani” è rimasto un miraggio beffardo.

    Il principale vantaggio promesso ai consumatori, l’abbassamento dei prezzi conseguente alla competitività delle aziende private sul mercato, è stato rapidamente affondato dalla tendenza delle aziende stesse ad accordarsi creando di fatto condizioni di monopolio, solo a condizioni più esose. E’ vero che spesso gli utili delle aziende privatizzate sono cresciuti e spesso di parecchio. Però, come segnalato nel 2010, la Corte dei Conti, in una valutazione complessiva del ventennio delle privatizzazioni, non per il miglioramento dei servizi e la loro conseguente maggior appetibilità: solo per l’aumento delle tariffe. Se sia oggi il caso di tornare a nazionalizzare è oggetto di disfide nelle quali è difficile, per chi non abbia le necessarie competenze tecniche, decidere dove siano le ragioni e dove i torti. Però ammettere che le privatizzazioni italiane siano state un fallimento sarebbe quanto meno onesto. (Cfr. “Il Dubbio”, articolo di Paolo Delgado, 22/8/2018). 

    L ideologia liberista e le liberalizzazioni e privatizzazioni hanno distrutto milioni di posti di lavoro e ucciso il PIL italiano.

    Tra 2 anni l Europa ci metterà in ginocchio per rientrare nei parametri del 3% del debito pubblico.

    Complimenti e ringraziamo tutti i fedayn fanatici neoliberisti italiani.

    Grazie per la povertà fame e disoccupazione.
    Complementi per il lavoro svolto e la fede cieca nel neoliberismo

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