Milano, Centro Storico.
Testo: Luciano Riccardi e Roberto Arsuffi
Come molte grandi città, nel corso del tempo, anche Milano (più di tutte in Italia) ha subito molte e stravolgenti alterazioni urbanistiche, cancellando storia millenaria in pochi decenni per adeguare una struttura urbana ancora “medievale” ad esigenze moderne. Così, ad esempio, possiamo cercare di raccontare in breve l’evoluzione stravolgente che ha portato ad avere l’odierna area di Piazza degli Affari con il candido Palazzo Mezzanotte, che ben conosciamo, e l’odierno Palazzo della Camera di Commercio di via Meravigli. Area un tempo occupata da varie tipologie di case operaie e una chiesa (San Vittore al Teatro, sulla quale abbiamo già scritto un articolo qualche settimana fa).

Palazzo ERCOLE Turati – 1880-1902
Palazzo Turati deve essere, suo malgrado, inserito tra le architetture scomparse di Milano, dato che la sola facciata, tra l’altro inevitabilmente alterata dopo la guerra, non è sufficiente a compensare tutto ciò che è stato demolito dal piccone o distrutto dalla guerra. Come osservò un acuto cronista della prima metà del secolo scorso, esso dava l’impressione di essere più antico di quanto non lo fosse proprio per essere stato, diciamo così, ispirato, dall’architettura del cinquecentesco palazzo della Cancelleria a Roma. Tuttavia la sua storia è molto più recente, dato che fu iniziato nel 1879 da parte del conte Ercole Turati e terminato, purtroppo, qualche anno dopo la sua prematura scomparsa.
L’esistenza di palazzo Turati è subito messa in collegamento con il ritrovamento, durante i lavori di sterro, di importanti tracce di una costruzione romana, che accese l’interesse e l’immaginazione degli studiosi del tempo, adusi a trascurare il vecchiume medioevale, che veniva generalmente distrutto senza farsi troppi problemi, per concentrare la propria attenzione unicamente sulle antichità romane. Nella primavera del 1880, demolite le case esistenti tra via Meravigli e via San Vittore al Teatro, la grande area aveva mostrato, ad una profondità compresa tra i tre e di quattro metri sotto il livello stradale dell’epoca, consistenti rimanenze di muri di ciottoli cementati, immediatamente messi in relazione con il “teatro romano” la cui preesistenza era ricordata dal toponimo di “San Vittore al teatro”. L’insigne prof. Pompeo Castelfranco esaminò quanto era emerso e scrisse una breve relazione a riguardo, confermando la prima impressione generale che si trattasse delle fondazioni del teatro romano, capace di ospitare, con la sua lunghezza di novantotto metri, tra i diciottomila ed i ventimila spettatori. Il conte Ercole Turati, fratello di Ernesto, proprietario dell’altro palazzo Turati, al civico 7 di via Meravigli – per fortuna sopravvissuto alle vicende belliche ed edilizie – costruì pertanto nell’area compresa tra via Meravigli, via delle Orsole e via San Vittore al Teatro un grandioso palazzo nel sedime sul quale un tempo esisteva dunque il teatro romano.






Il 26 febbraio 1879, probabilmente già demolite o in corso di demolizione le case preesistenti tra via Meravigli e via delle Orsole, gli ingegneri Pietro Ponti e Francesco Bordoli presentano istanza di costruzione di fabbricato per il conte Ercole Turati. L’ambizioso progetto si allineava, con un lieve arretramento, a quello esistente del fratello Ernesto Turati, in una ricostruzione complessiva dell’isolato. Messe le mani avanti, per così dire, a chiarire immediatamente il punto più importante del progetto dal punto di vista municipale – che importa il linguaggio, l’architettura, la struttura o la distribuzione? Guardiamo i decimetri quadrati di sporto dei portali di ingresso! – gli ottimi ingegneri avrebbero comunque avanzato regolare istanza per costruzione di fabbrica.
Il progetto, dietro l’apparenza di un palazzo nobiliare, prevedeva la realizzazione di una serie di appartamenti da affittare, di varie dimensioni e variamente configurati secondo le esigenze richieste. I due ingressi identici avrebbero permesso l’accesso verso i due grandi cortili, che però non sarebbero stati uguali tra loro – giacché quello di sinistra – il civico “nove” – per esigenze di spazio era ridotto a tre soli portici, mentre quello di destra – il civico “undici” – era invece completo su quattro lati e di dimensioni maggiori. I cortili distribuivano una grande varietà di scale, cortiletti, anditi e passaggi in modo da garantire una distribuzione adeguata alle diverse unità immobiliari che sarebbero convissuto insieme nel palazzo.
E’ interessante notare che la Commissione igienico-edilizia, durante l’esame del fabbricato, si concentrò proprio sui due portali monumentali, che, con le proprie colonne binate, avrebbero occupato una porzione del pubblico marciapiede. Tuttavia, in virtù di un arretramento rispetto alle precedenti costruzioni ed al carattere monumentale del palazzo, concesse il proprio benestare.
I disegni della facciata risentono della impostazione rigidamente storicista fornita dai progettisti: una sequenza regolare di finestre tutte uguali ad arco in fasce di muratura diversamente trattate man mano che ci si eleva dal piano terreno; unica concessione, i due balconi sopra i portali di ingresso al piano primo e le bifore alle estremità. Il risultato è un greve e severo palazzo classicista, che non lascia alcuno spazio alla leggerezza o ad eventuali aperture verso novità più moderne. Siamo insomma di fronte alla impasse nel quale inevitabilmente confluivano i progettisti della seconda metà del XIX secolo quando o non volevano o non erano in grado di utilizzare un linguaggio che non fosse un perfetto – o anche imperfetto, perché no – recupero degli stilemi tratti dal passato. I prospetti verso le vie Orsole e San Vittore al Teatro presentano invece una regolarità monotona di finestrature tutte identiche in maniera tale da farli assomigliare più a quelli di un istituto tecnico piuttosto che ad una casa che ambisse a diventare un palazzo.
I documenti conservati presso il Fondo Archivistico Ornato Fabbriche di Milano mostrano un gran numero di visite parziali per abitabilità, relative a singole unità immobiliari. Questa procedura comportava ogni volta il minuzioso elenco dei locali per i quali era stata concessa l’abitabilità, con l’esclusione dei locali invece che ne erano ancora privi; in taluni casi si specifica ad esempio che i locali inabitabili erano ad esempio ancora privi di serramenti, lasciati al rustico oppure usati come magazzini. A quel tempo vi era poco da scherzare: in caso di dubbi, l’ufficio tecnico inviava senza indugi il delegato mandamentale presso il fabbricato a verificare che effettivamente fossero “abitati” solamente i locali puntigliosamente elencati nelle Licenze d’abitabilità, elevando denunce e contravvenzioni in caso contrario.
Unione Cooperativa – 1903-1923
L’Unione Cooperativa nacque a Milano nel 1886 grazie a Luigi Buffoli, ispirato dal modello cooperativo inglese. Inizialmente vendeva vestiario e casalinghi, ma presto ampliò l’offerta includendo generi alimentari, che divennero il settore principale. Innovativa per il suo tempo, l’Unione adottò il proprio marchio su vari prodotti e vendeva sia ai soci che ai non soci. Alla fine dell’Ottocento era una cooperativa di grande successo. Tuttavia, nel dopoguerra affrontò difficoltà economiche, concorrenza crescente e crisi dei consumi, fino a dichiarare fallimento nel 1935.




Ad ogni modo, nell’ottobre del 1902 si sparse la notizia che l’Unione Cooperativa, dopo aver trattato per l’acquisto di palazzo Antona Traversi (via Manzoni), avesse infine acquistato il noto palazzo Turati di via Meravigli 9-11 per due milioni e trecentomila lire, al fine di trasformare i settemila metri quadrati del fabbricato in saloni di vendita dei propri prodotti.
Tale cifra fu dichiarata poi eccessiva rispetto a quella stipulata, ma la compravendita era effettivamente avvenuta. La questione, dal punto di vista giuridico, si profilò particolarmente complessa, tanto da richiedere l’intervento del Tribunale, ma questo aspetto della questione ci interessa fino ad un certo punto.
L’Unione abbandonò così la vecchia sede di Palazzo Flori, in via Carlo Alberto 1 (odierna via Mazzini), ma tale scelta non fu senza scossoni e polemiche interne, giacché molti soci non ritennero, vuoi per la spesa ritenuta eccessiva o per altre ragioni, che palazzo Turati potesse costituire una valida alternativa alla sede di via Carlo Alberto.





In ogni caso, il 14 novembre 1903 la Società Unione Cooperativa presentò domanda presso l’ufficio tecnico del Comune di Milano per la realizzazione di “alcune varianti” al progetto di riforma del Palazzo di via Meravigli 9-11; il direttore delle opere sarebbe stato l’ing. arch. Ulisse Stacchini (lo stesso architetto che progettò la nuova Stazione Centrale di Milano), mentre l’esecutore delle stesse sarebbe stata la Società Cooperativa Muratori.
La descrizione dettagliata delle opere riporta la costruzione di due corpi di fabbrica, la copertura in ferro e vetro dei due “grandi cortili” del palazzo esistente, la realizzazione di due pensiline nei due cortili secondari ed infine varie opere di riforma interne. Le fotografie esistenti non evidenziano un ambiente particolarmente aggiornato, dal punto di vista stilistico: siamo sempre nell’ambito di un classicismo rivisitato pesantemente decorato di murature rivestite in pietra, quando forse starebbe stato più opportuno rivolgersi verso materiali meno grevi e massicci, come colonne di ghisa e simili.
Galleria Buffoli – 1903-1924
Tuttavia un passage, o vuolsi galleria, è per sé stesso, con tutta evidenza, un elemento stimolante giacché collega due luoghi che altrimenti sarebbero, lapalissianamente, separati – e lo fa al coperto: i negozi che si affacciano dentro un passaggio sono generalmente piacevoli in questo senso, dato che permettono di godere degli spazi aperti senza soffrirne troppo le conseguenze sgradevoli quali la pioggia, il caldo o il freddo. La presenza di una nuova galleria o passage non poteva pertanto che agitare ed incuriosire gli animi dei milanesi: attraversare l’intrico delle strette ed oscure vie medioevali mediante gradevoli e coperti passaggi illuminati zenitalmente da eleganti coperture in vetri colorati non poteva che essere una soluzione gradita, sopratutto di gran moda all’epoca e ispirate alle gallerie di Parigi.



I disegni conservati all’Archivio Ornato Fabbriche di Milano mostrano due versioni della Galleria. La prima, del settembre 1903, pare più timidamente aderente al linguaggio tardo ottocentesco, imitato dal Cinquecento, di Ponti e Bordoli: una sequenza di archi a tutto sesto, con una volta vetrata per tutta la lunghezza ad eccezione del corpo di fabbrica coperto zenitalmente verso la facciata di via Meravigli. La seconda versione, del novembre 1903, sopprime gli archi a tutto sesto ed alleggerisce in generale l’insieme delle campate, pur nel linguaggio stacchiniano non certamente lieve nelle sue caratteristiche.
La versione del tardo 1903 evidenzia anche una modifica alla facciata, che avrebbe tutto sommato migliorato l’aspetto generale: tra via Meravigli e via Orsole, là dove gli ingegneri Ponti e Bordoli non intesero sfruttare al meglio lo spigolo tra le due vie, limitandosi a riportare pedissequamente il prospetto principale da un lato ad un altro, Stacchini provò a rendere più interessante il tutto con aperture più ampie a tutto sesto, mimate da quelle esistenti. Dall’iniziale portale a doppia fornice, corrispondente alle bifore soprastanti, si passò poi al definitivo arco di ingresso con colonne architravate, più snello ed arioso, che sul lato verso il civico 9 corrispondeva con l’ingresso della Galleria Buffoli. Molte cronache del tempo sottolineano proprio che l’intervento del 1903-1905 contribuì ad ingentilire un Palazzo con ogni probabilità troppo serioso, alleggerendo un poco un luogo che, comunque, da privato doveva di fatto diventare pubblico: il paradiso delle signore, anche se le signore non erano necessariamente quelle della borghesia bensì anche quelle dei ceti meno abbienti. Una alternativa ai ricchi Magazzini Bocconi di piazza del Duomo, più estesi di questi e non meno in grado di fornire una serie di merci.
L’inaugurazione avvenne intorno al 5 settembre 1905 e fu un grande successo.

Il 4 gennaio 1907 l’Unione Cooperativa presentò presso gli uffici comunali di Milano il progetto di un fabbricato ad uso magazzini di vendita per l’ampliamento del complesso, terminato da un paio d’anni, firmato dal medesimo ing. arch. Ulisse Stacchini, ormai uomo di fiducia della Proprietà.
Se ci fermassimo a queste parole, sembrerebbe una cosa da nulla, uno dei tanti fabbricati ad uso commerciale sorti rapidamente ed altrettanto rapidamente dimenticati e poi distrutti. Il progetto prevedeva la demolizione delle vecchie case ai civici 12-14-16 per un nuovo magazzino, collegato con Palazzo Turati adibito ormai stabilmente a sede di vendita dei prodotti dell’Unione Cooperativa. Se osserviamo le poche foto rintracciate, tra case annerite dal fumo e dalla muffa, che trasudano umido anche a solo a guardarle, case senza tempo, eternamente ricostruite su sé stesse, spicca un edificio affatto diverso: un arco a tutto sesto ribassato, con sottili, eleganti colonnine in ferro, con grandi vetrate su massicce murature delicatamente ricamate con decorazioni di cemento. Materiali così stridenti tra loro, in un tentativo coraggioso ed eroico di conciliare – una volta tanto! – passato e futuro, antico e moderno.
IL NUOVO AMPLIAMENTO CON I SUOI GUAI -1907-1925
Ma facciamo le cose con calma, perché l’edificio ritratto in quelle fotografie non corrisponde a quello di Stacchini!
Vi sono infatti due versioni del progetto: la prima, dell’ing. Arch. Ulisse Stacchini; la seconda, dell’ing. Achille Manfredini – e non sono identiche o interscambiabili. Anzi! La prima versione, del gennaio 1907 del detto Stacchini, presenta un fabbricato piacevole nelle proporzioni, elegante e massiccio ad un tempo: ampie vetrate al piano terreno, finestre più piccole e ricamate nel primo e trifore nel secondo, in una traforazione della materia caratteristica della sua poetica ed anche del tempo suo. Il progetto ricorda un po’ i padiglioni della trascorsa Esposizione Internazionale del 1906: abbondante o sovrabbondante cemento decorativo, vetro, con il parapetto metallico della terrazza, i materiali utilizzati. L’ingresso, per garantire la massima superficie commerciale, non si collocava al centro bensì completamente defilato a destra: un fastoso arco tràbéato con colonne binate, un poco greve nella sua configurazione. Avrebbe potuto ospitare qualsiasi funzione: un emporio come una stazione ferroviaria. Nel complesso un fabbricato stacchiniano, che non avrebbe certo sfigurato se fosse stato costruito.

La seconda versione, del vulcanico ing. Achille Manfredini, risalgono invece al gennaio 1909 e pur mantenendo una impostazione planimetrica analoga, presenta una facciata che, diciamo la verità, è decisamente più brillante e sensuale nella propria accattivante seduzione: una serie di campate di sottili colonnine di ferro decorate e binate sostengono dal piano primo al secondo degli archi a tutto sesto ribassati, in una sorta di ordine gigante rivisitato, per garantire la massima luminosità negli ambienti retrostanti mediante generose vetrate. Il piano terreno, al contrario, è più massiccio, con il rustico rivestimento in cemento decorativo a mimare una roccia sulla quale si aprono comunque ampie vetrate dei negozi e delle attività commerciali. Pare davvero di sentire la linea-forza di Van de Velde salire su, dalle rocce fino ai fusti delle colonne e poi ancora più su, sino a scemare dolcemente come rami piegati dal peso…





LA TRAGEDIA
Cosa era accaduto tra il gennaio 1907 ed il gennaio 1909? La tragedia accadde il 17 aprile 1908: poco dopo le 16.30, all’angolo tra il vicolo di Santa Maria Segreta e via Santa Maria Segreta: un rovinoso crollo di una significativa porzione del fabbricato in costruzione dell’Unione Cooperativa lasciò immediatamente presagire, prima ancora di una reale presa visione dei luoghi, una grave fatto luttuoso in termini di vite umane. Il fabbricato, come da disegni comunali a firma dell’ing. arch. Stacchini, era realizzato su tre piani fuori terra in calcestruzzo armato e terminava con un grande terrazzo in copertura.

Quel giorno intorno alle 16 erano proprio stati posati dei sacchi di sabbia per collaudare il solaio in calcestruzzo del terrazzo, alla presenza dell’ing. Emilio Rimoldi e dell’assistente Carlo Vender e di altri operai. Verso le 16:15 un rombo ed una nuvola di polvere: il solaio aveva ceduto sotto il peso dei sacchi di piombo, trascinando con sé coloro che si trovavano sopra. L’ing. Rimoldi fu uno ritrovato quasi subito, in gravissime condizioni, da alcuni operai scampati che cercarono di salvare le vittime. Un primo appello, fatto nella immediatezza del crollo, stabilì la scomparsa di altre quattro persone, ma successivamente, verificando negli elenchi del giorno il numero delle maestranze presenti, tale numero fu elevato addirittura a tredici. Nelle ore successive, gli inquirenti posero immediatamente ai sopravvissuti una chiara e semplice domanda: “perché si permise che una squadra di operai continuasse nell’abituale lavoro mentre si facevano le prove di resistenza, caricando con parecchi quintali di sabbia i pavimenti armati?” Già, perché?
Inoltre, perché disarmare completamente le strutture prima di procedere al collaudo? Non sarebbe stato meglio conservare, ancora per qualche giorno, le armature che avrebbero sostenuto il peso o almeno ritardato un eventuale crollo? Pare davvero assurdo togliere i sostegni, permettere agli operai di lavorare al di sotto del solaio oggetto di collaudo mentre altri, insieme agli ingegneri ed agli assistenti di cantiere sostavano al di sopra del solaio stesso! Eppure, così a quanto pare andarono le cose. I corpi straziati delle vittime furono, nei giorni seguenti, estratte sotto quintali di macerie, in condizioni tali da far credere che la loro morte fosse stata pressoché istantanea, schiacciati sotto un peso immane.
La Sentenza e la nuova costruzione
Il 14 febbraio 1910 iniziò, presso la terza sezione del Tribunale, il processo per stabilire le responsabilità civili e penali del tragico crollo che causò la morte di tredici persone ed il ferimento di molte altre. I quattro imputati di quello che oggi sarebbe omicidio colposo erano l’arch. Ing. Stacchini, l’ing. Leonardi, ex dipendente della impresa costruttrice; Luigi Vender, impresario; Luigi Coerenza, assistente capomastro. La sentenza fu emessa il 13 maggio 1911, dopo venticinque giorni di udienze: i quattro imputati furono dichiarati colpevoli di omicidio colposo, pur riconoscendo a tutti, tranne che a Luigi Vender, le attenuanti generiche. Le pene furono pertanto le seguenti: Luigi Vender, un anno di detenzione e 3000 lire di multa; per Stacchini, Leonardi e Coerezza dieci mesi di detenzione e 2800 lire di multa, oltre i danni le spese. L’Appello tuttavia ritenne altrimenti. Il solaio crollò e basta, insomma.
Il 26 luglio 1908 l’Unione Cooperativa comunicò agli uffici municipali la decisione di demolire quanto era rimasto in piedi dopo il rovinoso e tragico crollo del 17 aprile precedente. Il 22 gennaio 1909 fu presentata istanza per opere edilizie in via San Vittore al Teatro 14-16, nel lotto alle spalle di Palazzo Turati, a firma dell’ing. Achille Manfredini e del capomastro Onofrio Belloni. La Commissione igienico-edilizia nella seduta del 3 febbraio seguente approvò il progetto, ma con “raccomandazione” di semplificare “in qualche punto”, la decorazione delle strutture metalliche esterne;
un po’ come l’Imperatore d’Austria con Mozart, insomma: una sforbiciata qui e là et voilà la Commissione è appagata.



LA FINE DI UN’EPOCA E NUOVA VITA
Verso gli anni Venti l’Unione fu messa in crisi, in primis subito dopo la morte del fondatore Luigi Buffoli (morì il 5 ott. 1914 in Milano), e successivamente con l’avvento del fascismo avverso all’imprenditoria cooperativa.
Nel frattempo il palazzo non più sede della Cooperativa venne scelto per ospitare la nuova Camera di Commercio di Milano, tuttora presente nello stesso edificio. Questo fu l’ultimo e definitivo trasferimento di un’istituzione molto importante per la città.
La prima Borsa del commercio di Milano fu istituita nel 1808, per decreto di Napoleone Bonaparte, nei locali del Monte di Pietà. L’anno successivo le contrattazioni furono trasferite nel Palazzo dei Giureconsulti in Piazza dei Mercanti, ma lo spazio di soli 250 mq si rivelò presto insufficiente, mentre Napoli restava il fulcro economico del Regno borbonico. Solo dopo l’Unità d’Italia, con l’intervento dei Savoia, il baricentro economico si spostò verso il Nord.
Per rispondere alla crescita delle attività finanziarie, la Camera di Commercio di Milano progettò una nuova sede in Piazza Cordusio, affidando l’incarico all’architetto Luigi Broggi. Inaugurata nel 1901, anche questa struttura risultò presto inadeguata, soprattutto con la nascita della Borsa Merci.
Nel 1925, il senatore Angelo Salmoiraghi deliberò l’acquisto di Palazzo Turati e dell’area tra via Meravigli e Piazza San Vittore al Teatro, con l’intento di riunire le Borse milanesi. Inizialmente si pensò di adattare Palazzo Turati, ma l’architetto Paolo Mezzanotte concluse che le modifiche necessarie ne avrebbero snaturato la struttura. Si optò quindi per la costruzione di un nuovo edificio sul retro, nella Nuova Piazza degli Affari, che oggi porta il suo nome.





Con la realizzazione della nuova Borsa, il Palazzo di via Meravigli subì profonde trasformazioni. Nel 1952, Achille e Piergiacomo Castiglioni intervennero per riparare i danni bellici e adeguare gli spazi alla Camera di Commercio di Milano. La facciata, unica superstite, in parte, come accennavamo all’inizio, venne stravolta completamente, mantenendo solo in parte, il bugnato del piano terra, le finestre ai due lati, le entrate con le colonne che reggono i due terrazzi e il terrazzo centrale. Per il resto sono state aperte molte più finestre e inserito un piano in più. Mentre gli interni sono stati ammodernati, mantenendo solo uno dei cortili che ancora mostra le vecchie colonne.



L’attività di ristrutturazione fu particolarmente complessa sia per quanto riguarda la realizzazione degli spazi operativi (salone mercati, mercato grani, salone per il pubblico, sala conferenze, ecc.) che per la realizzazione dei locali della direzione del primo piano, dove hanno trovato spazio alcune opere artistiche appositamente eseguite a questo scopo (la statua in bronzo di S.Ambrogio nell’atrio dello scultore Mario Negri, la vetrata del primo piano di Cristoforo De Amicis, il “concetto spaziale” di Lucio Fontana nella galleria delle conferenze oltre ai quadri del Previati che sono esposti nella sala Consiglio).














- Referenze immagini: Milano Sparita, Roberto Arsuffi; Studio Hänninen
- Informazioni: Milano Sparita Skyscrapercity; “Le Città nella Storia d’Italia” – Milano, Edizini la Terza 1982; Archivio storico di Milano; Un ringraziamento speciale a Luciano Riccardi per la minuziosa ricerca.
- Per le foto d’epoca: sono immagini diffuse in rete e pertanto non di nostro possesso
- Centro Storico, Porta Magenta, Via Meravigli, Piazza Affari, Mediolanum, Cordusio, San Vittore al Teatro, Ulisse Stacchini, Società Unione Cooperativa, Palazzo Turati, Palazzo Mezzanotte, Galleria Buffoli, Luigi Buffoli, Achille Manfredini,
15 minuti di applausi
Un piccolo appunto sulla società cooperativa.
Se il fascismo fosse più o meno contro l’imprenditoria cooperativa è argomento per storici.
Quel che è sicuro è che nel 1921 la Unione Cooperativa S.P.E.R.A. Milano venne comprata da Isaia (Abramo Giacobbe) Levi, grande industriale tessile, Senatore del Regno e amico personale di Mussolini (malgrado il nome – ma anche su questo c’è tutta una storia molto italica negli anni a seguire). Forse la fine della cooperativa fu dovuta più a cause di mercato che ad altro. Levi tra l’altro è stato il fondatore e proprietario delle penne Aurora fino alla sua morte nel 1949.
Fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/abramo-giacobbe-isaia-levi_(Dizionario-Biografico)/
Molto interessante! E a settembre palazzo Turati diverrà la nuova sede di Istituto Marangoni. I lavori sono già belli avviati !